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Dare un nome di marca e pensare alla fonetica

Dare un nome di marca con un suono che resta nella mente e nel cuore.

Per dare un nome di marca con un suono che resta nella mente e nel cuore non basta utilizzare la tecnica studiata sui manuali.

Non basta nemmeno studiare dai libri di fonetica o chiedere a un’amica specializzata in linguistica di aiutarti a conoscere meglio quel mondo.

Io, per esempio, l’ho fatto l’anno scorso. Nel 2021 ho contattato Elisabetta Idda Olla, una collega che stimo per competenza e valori. Le ho chiesto aiuto perché non ho mai studiato fonetica e gli esami all’università di natura linguistica non mi sono rimasti impressi come altri, che ho trovato invece più aderenti alla mia pelle.

Stavo lavorando a un naming per un’agenzia pubblicitaria di Roma e volevo fare bella figura, mi stavo giocando una bella occasione. L’ho chiamata dopo che avevo già scelto i nomi da presentare al cliente. Avevo già la presentazione pronta ed ero sicura delle mie scelte, però volevo il parere di una professionista che conosce i suoni di ogni parola e li ha studiati nel dettaglio. Le ho chiesto aiuto per prepararmi alla perfezione e presentare dei nomi che fossero convincenti. Volevo capire se avevo scelto bene, se ero riuscita a intuire quello che non ho studiato. Volevo la conferma che nel dare un nome di marca non puoi sottovalutare il suono di ogni proposta.

Racconto questo episodio perché un suono che resta rende un nome di marca memorabile. Per sceglierlo serve rendere uno studio di naming ibrido, in cui avvicinare diversi elementi e diversi approcci. 

Te ne parlo in questo articolo e ti spiego come lavoro dando valore ai suoni delle parole.  

Conoscere i suoni per usarli al meglio nel naming.

Le parole, e quindi i nomi di marca, esistono in tre dimensioni. Sono, contemporaneamente:

  • concetti che abitano la nostra mente;
  • parole scritte che occupano uno spazio;
  • suoni che viaggiano nell’aria fino ad arrivare a noi.

Se ci soffermiamo sulla dimensione sonora, sicuramente ti è capitato di pensare che una parola suoni bene e un’altra male. Questo capita perché il nostro orecchio è abituato a sentire i suoni concatenati in un certo modo. Per esempio, chi ha l’italiano come prima lingua è abituato o abituata a non sentire troppe consonanti di fila una dopo l’altra, perché nelle parole italiane di norma c’è una vocale ogni una, due, massimo tre consonanti.  

C’è anche un altro aspetto della lingua parlata che secondo me va considerato quando pensiamo al suono di un nome. Mentre il target pronuncerà il nome, che espressione farà? Usare questo parametro ha due possibili applicazioni: 

  • se creo un nome in cui la E o la I hanno una predominanza, per pronunciarlo le persone dovranno distendere gli angoli della bocca e sorridere. Quindi, con il giusto studio, posso guidare la mimica facciale delle persone che nomineranno il marchio o il prodotto per cui sto studiando il nome.  
  • ci sono tanti ideofoni ovvero parole che riproducono i suoni fatti dalle persone, che ci fanno pensare a delle determinate azioni. Per esempio, “mmm” può essere usato per richiamare il pensiero, ma se io uso il suono della M allungato nel nome di un cibo o di un prodotto, la mia mente probabilmente lo assocerà alla formula “mmm, che buono!”.

Come puoi capire, per dare un nome di marca con criterio e senza pensare “solo” al processo creativo, conoscere questi aspetti ti aiuta molto una volta che hai creato una lista di nomi papabili da presentare al tuo o alla tua cliente. Avvicinare a ogni suono un pensiero e approfondire il mondo che racconta diventa necessario per dare a quel nome una personalità adatta al progetto. Perché il suono esprime un’emozione e dei valori precisi.

Vocali e consonanti per dare un nome di marca. Come nascono e come suonano.

Un altro aspetto utile per dare un nome di marca è conoscere la differenza tra vocali e consonanti. Puoi capirlo se sai come funziona il suono di un fono. Quando noi esseri umani parliamo, facciamo uscire l’aria dai polmoni, la facciamo passare in mezzo alle corde vocali facendole vibrare e la facciamo uscire dalla bocca. A seconda dei movimenti e delle posizioni che facciamo assumere ai nostri organi fonatori, ovvero le parti della bocca che si usano per produrre i suoni, possiamo creare una grande varietà di foni.
Gli organi fonatori, o articolatori, che usiamo prevalentemente nell’italiano sono la lingua, i denti, il palato, le labbra e le cavità nasali. 

Per esempio, le consonanti nascono quando il passaggio dell’aria viene ostacolato. A volte gli organi fonatori si toccano tra loro impedendo all’aria di passare, e il suono che nasce quando la lasciamo andare è simile a una piccola esplosione. Le consonanti come la P e la T sono due di queste. Nel caso della lettera P, le labbra si chiudono poggiandosi tra loro, mentre per la T, la lingua si poggia subito dietro i denti. In entrambi i casi, l’aria viene rilasciata tutta in una volta dando origine a un suono corposo, potente. 

Altre volte, ci sono consonanti che si pronunciano restringendo solamente lo spazio in cui passa l’aria, che quindi incontra solo un po’ di resistenza. È il caso della lettera F, in cui labbro inferiore e incisivi superiori si avvicinano così tanto che l’aria esce dalla nostra bocca come in un soffio, oppure la S, in cui l’aria esce come un sibilo. 

Altri suoni consonantici, invece, sono un po’ più complessi perché li produciamo in due momenti. Prendiamo la C di “ciao”. Non so se ci hai mai fatto caso, ma quando la pronunciamo, mettiamo prima la lingua sul palato dietro ai denti, come per dire la T, poi però lasciamo passare l’aria posizionandola come se dovessimo fare il suono SC della parola Scivolo.  

Le vocali, dal canto loro, sono suoni liberi in cui nessun ostacolo si frappone al passaggio dell’aria. Per cambiare suono, ci limitiamo ad aprire la bocca o ad arrotondare le labbra. A chi non è stato chiesto di dire una “A grande grande” quando da bambini avevamo l’influenza e ci dovevano controllare la gola? 

Fonosimbolismo e brand naming.

So che scritto così sembra semplice ma in verità dietro vocali, consonanti e suoni c’è un mondo che mi piacerebbe approfondire e su cui mi sento di conoscere ancora troppo poco.

Tutti i suoni sono diversi, dunque, ma alcune volte si combinano in modi più gradevoli ed efficaci di altri e questo perché una parte della loro percezione può dipendere dal fonosimbolismo, ovvero dalla capacità dei suoni di evocare pensieri, emozioni e sensazioni. 

Parlando di brand name, questo aspetto è molto più rilevante che in altri ambiti, perché quando lo creiamo dobbiamo avere la consapevolezza che quel nome a cui stiamo dando vita esisterà su tre dimensioni, compresa quella sonora. 

I collegamenti tra nomi di marca e fonosimbolismo sono spesso correlati alle onomatopee, che abbiamo studiato sin dalle scuole elementari. L’onomatopea è un tipo di fonosimbolismo, che imita i suoni ambientali nella creazione di nuove parole. Un marchionimo che sfrutta questo fenomeno è per esempio Tic Tac, le caramelle della Ferrero o il brand di abbigliamento per bambini Tuc Tuc. 

L’onomatopea, però, non è l’unica forma di fonosimbolismo. A prescindere dal tipo di suono che si produce, anche la sua durata è un fatto sonoro. Pensaci: un nome breve, magari di una sola sillaba, ci fa pensare a qualcosa di veloce e immediato. Non è un caso che molti marchionimi di prodotti per la pulizia della casa abbiano queste caratteristiche. Brill, Smac, Vim… Insomma, a chi piace pulire a lungo? Meglio veicolare rapidità con un suono che svanisce subito. 

Comunicare i valori di brand anche con i suoni.

Quando lavoro su un nome di marca, devo sempre e comunque partire dal posizionamento di quel brand. Il suo vantaggio competitivo, la sua unique selling proposition e la sua identità valoriale sono aspetti che non devo mai perdere di vista. 

Fonetica, fonosimbolismo, metrica e retorica non bastano per scegliere un nome efficace. La strategia deve essere la base su cui la creatività poggia e lavora. La conoscenza della fonetica e lo studio del fonosimbolismo sono solo due strumenti con cui la creatività può lavorare meglio.

Chiarito che lo studio fonetico non può essere l’unico criterio con cui si lavora sul brand naming, è anche vero che è uno degli strumenti più efficaci per creare un nome memorabile, che resti in testa.

Il suono del brand name deve essere in linea con il suo posizionamento e i suoi valori. Deve essere in grado di trasmettere la forza del marchio. Forse è utile pensare ai momenti in cui le persone lo pronunceranno come una sorta di brand ambassador sonoro.

Consigli pratici per applicare la fonetica a un naming.

Lo dico subito, complicarsi la vita serve a poco. Foni, fonemi, accenti sono tutti concetti che appartengono al mondo dei suoni delle parole ma si riferiscono a concetti diversi e non sono interscambiabili. È sempre meglio volare basso e limitarsi a parlare di suoni. 

Considera poi che dare un nome non significa racchiudere idee e studi in una scatola e poi confezionarla. Non esiste un ordine giusto e uno sbagliato in cui fare le valutazioni che portano alla scelta del nome perché l’ultima parola spetta al cliente o alla cliente che ti ha commissionato il lavoro. Se il suono trasmette valori ed emozione, la componente soggettiva ed emozionale ha un grande ruolo nella scelta del nome. Deve convincere, deve avere il giusto posizionamento, deve essere un nome unico ma DEVE soprattutto PIACERE a chi lo deve usare negli anni.
Per questo io non lavoro mai a un nome pensando prima ai suoni. Non combino vocali e consonanti se prima non ho lavorato a tutto il resto. Parto sempre dai valori e tengo quelli come cardine. Rifletto sulla fonetica quando ho già la mia lista da proporre, con nomi che mi convincono e su cui credo. 

Il suono del nome di marca come primo strumento di branding

Insomma, ogni volta che un brand name viene pronunciato è un’occasione in più per rinforzare la popolarità e la riconoscibilità di un marchio, o di un prodotto. Se la pronuncia del nome non è semplice o chiara, le persone la sbaglieranno e la sua diffusione e memorabilità saranno complesse. 

Ecco che quando devo presentare un nome, e sempre prima di presentare le mie scelte, mi faccio un paio di domande per capire se ho scelto la strada giusta. Mi chiedo: 

  • Come farà sentire le persone pronunciare questa parola?
  • Quali saranno le prime associazioni mentali che faranno?
  • Che espressione avranno sui loro visi mentre la dicono?

Dopo aver risposto a queste domande, chiamo una collega più esperta di me. Sento il suo parere, chiedo se l’associazione dei nomi ai suoni è corretta.
Ascolto con attenzione.
Poi respiro. 

Mi chiamo Eleonora Usai e sono una copywriter freelance. Vivo di parole e libri, pasticcio su moleskine e planner ogni attimo di vita. E scrivo per sorridere.

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